venerdì 25 gennaio 2013

Il processo a Mubarak e' da rifare


Giuseppe Acconcia
Il processo a Mubarak è da rifare. Se il principale successo del movimento sociale che ha coinvolto l’Egitto, a partire dal 25 gennaio 2011, è forse proprio la condanna all’ergastolo dell’ex presidente, la corte di Cassazione ha disposto la scorsa domenica un nuovo processo per Hosni Mubarak, e l’ex ministro dell’Interno, Habib el-Adly. L’84enne rais egiziano si trova dal 27 dicembre scorso nell’ospedale militare di Maadi, in seguito ad una caduta nella prigione di Tora, dove sconta la pena all’ergastolo per complicità nell'uccisione di circa 900 manifestanti durante le rivolte. Lo scorso due giugno, anche el-Adly è stato condannato al carcere a vita, mentre i figli di Mubarak, Alaa, Gamal e sei funzionari del ministero dell’Interno sono stati assolti.
Secondo attivisti e forze di opposizione, dietro il nuovo processo, si prepara l’impunità per il vecchio Mubarak, dopo che gli islamisti hanno incassato l’approvazione della Costituzione che sancisce il bando dei politici del Partito nazionale democratico (Pnd) dalla scena pubblica. Sin dal primo giorno di arresti domiciliari a Sharm el-Sheikh, gli avvocati dell’ex rais hanno tentato di prendere tempo e di umanizzare il “diavolo”, rappresentandolo quotidianamente come malato o in fin di vita.
Il revisionismo è dietro l’angolo. L’ex ministro della giustizia, Ahmed Mekky, commentò la sentenza di ergastolo sottolineando come le assoluzioni per el-Adly e i suoi sei assistenti avrebbero aperto la strada al perdono per tutti gli imputati nel processo. A conferma di queste parole, è arrivata lo scorso ottobre la sentenza che ha scagionato i leader del defunto Pnd dalle responsabilità nella “battaglia dei cammelli”, il giorno più duro delle rivolte, in cui si scontrarono in piazza Tahrir i sostenitori e gli oppositori dell’ex presidente. Secondo la corte, la maggior parte dei testimoni ascoltati nel processo era politicizzata. E quindi i temibili, Safwat Sherif, ex presidente della Shura, e Fathi Sorour, ex presidente del Moghles Shaab (Assemblea del popolo) sono stati prosciolti. 
È curioso che si voglia negare proprio la responsabilità della polizia nelle violenze. A quasi due anni dal 25 gennaio 2011, le rivolte egiziane e tunisine possono essere raccontate come l’opposizione alle abitudini umilianti e degradanti dei poliziotti nei quartieri popolari. Da poveri, disoccupati e venditori ambulanti, i poliziotti sono diffusamente percepiti come una forza paramilitare che usa torture e violenze. Gli agenti di polizia sono responsabili di controlli sulla riscossione delle tasse, sul traffico, i prezzi degli alimentari nei mercati, la moralità e la difesa dei luoghi pubblici.
Per questo, sulle responsabilità nelle violenze, i primi incriminati sono proprio i poliziotti. Il 25 gennaio 2011, al Cairo e Alessandria i manifestanti attaccarono prima di tutto un centinaio di stazioni di polizia, nei quartieri popolari di Helwan, Embaba, Bab al Sharya, Boulaq Dakrur e al-Mattarya. Quando la situazione sul campo apparve fuori controllo, la polizia scomparve, l’esercito decise allora di abbandonare Mubarak al suo destino e di non sparare sulla folla.
A quel punto, la tv di stato e la giunta militare per fermare l’occupazione dello spazio pubblico tentarono la carta del panico, puntando sul timore dei baltagi, i criminali. Tutti i manifestanti sono stati descritti come criminali. In realtà il termine baltagi è molto vago, in alcuni periodi storici è stato associato ai salafiti, in quartieri popolari viene ancora riferito a chi collabora o informa la polizia. Il culmine delle violenze è stata la strage di Port Said, lo scorso febbraio, in cui sono stati uccisi 74 sostenitori della squadra dell’el-Ahly, da molti ricordata come la suprema vendetta dei poliziotti contro gli Ultras, tra i protagonisti delle rivolte.
Le responsabilità di Mubarak nelle violenze di piazza sono ancora lontane dall’essere dimostrate o accettate unanimemente. Ma i danni che trenta anni di regime hanno portato all’Egitto non si misurano in vittime. L’estensione dei poteri di sicurezza a polizia e forze paramilitari sono state la conseguenza diretta della ritrazione dello stato dallo spazio pubblico, causata dalle misure neoliberali esasperate, promosse da Mubarak negli anni novanta.

 Articolo apparso sul Manifesto il 15 gennaio 2013

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