sabato 18 febbraio 2012

Il piano israeliano di disimpegno unilaterale


Le gravi tensioni in Medio Oriente rendono incerta l’evoluzione del conflitto israelopalestinese.
Questa scheda ricostruisce la politica israeliana di disimpegno unilaterale, presenta l’attuale situazione nei territori occupati, riporta il quadro diplomatico internazionale e le posizioni palestinesi.
Il piano di Sharon
Il piano israeliano di disimpegno unilaterale, annunciato da Ariel Sharon il 18 dicembre del 2003 alla conferenza di Herziliya ed approvato dal Comitato centrale del Likud nel giugno del 2004, consiste nel ritiro delle forze militari israeliane di occupazione dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti nel Nord della Cisgiordania.
Il piano presume l’assenza di un interlocutore credibile nella classe dirigente palestinese. Si afferma come atto unilaterale e definitivo, limitatamente alla Striscia di Gaza. Nessun accenno viene fatto, invece, a successivi ritiri dalla Cisgiordania. Il piano di disimpegno di Sharon si pone in contrasto con la tradizionale posizione della destra israeliana ostile a qualsiasi concessione per la nascita di uno stato palestinese indipendente. Il piano ha, invece, riscosso il consenso del partito laburista, sostenitore anche di successivi ritiri dalla Cisgiordania. Il 27 ottobre del 2004 la Knesset ha approvato con 67 voti a favore e 45 contrari il piano di disimpegno di Sharon.
Le dinamiche del ritiro ad agosto del 2005
Il ritiro dei militari e dei civili israeliani si è svolto in quattro fasi tra il 15 ed il 22 agosto del 2005. Ogni famiglia israeliana coinvolta nel ritiro ha ricevuto un compenso di 330.000 $ per un totale di 550milioni di $. Mentre i costi militari del ritiro sono stati pari a 450 milioni di $.
Gli insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza, costruiti tra il 1979 ed 1993, occupavano 54 km2 sui 365 km2 dell’intera regione, vivevano, qui, 7000 coloni israeliani per una densità di 665 ab/km2. Invece, la densità di popolazione palestinese che vive nella Striscia di Gaza raggiunge i 25.700 ab/km2 salendo a 50.478 ab/km2 nei campi profughi.
I quattro insediamenti smantellati in Cisgiordania erano concentrati nella Samaria settentrionale nei dintorni di Jenin: Gonim, 170 abitanti, Kadim, 149 abitanti, Sa Nur, 83 abitanti, Hamesh, 198 abitanti, su una popolazione israeliana negli insediamenti in Cisgiordania di 246.000 abitanti.
Il controllo dei confini di Gaza
Le autorità israeliane hanno mantenuto il controllo dei confini di terra, dei cieli e delle coste della Striscia di Gaza. Nel novembre del 2005 è stato annunciato dal Ministro della Difesa israeliano, Shaul Mofaz, l’accordo con l’Egitto per garantire la sicurezza del valico di frontiera di Rafah tra Egitto e Striscia di Gaza sotto la sorveglianza di una missione guidata dall’Unione europea. Mentre la dogana commerciale è stata collocata al valico di Shalom Kerem sotto controllo israeliano.
Non è stato predisposto un servizio di trasporto tra Gaza e la Cisgiordania, sebbene il piano di disimpegno faccia riferimento alla necessità di garantire la “continuità territoriale” al popolo palestinese.
La situazione degli insediamenti in Cisgiordania
Parallelamente al piano di disimpegno, Israele ha continuato l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Secondo la direzione delle statistiche israeliana, nel primo trimestre del 2005 la costruzione di insediamenti è aumentata dell’83%.
In Cisgiordania, si sono ormai consolidate due reti stradali separate una per i palestinesi l’altra per i coloni rendendo disagevoli gli spostamenti. In quest’area hanno subito un sensibile incremento i posti di blocco ed i check points.
A questo va aggiunto la costruzione della “barriera di sicurezza” che ha avuto inizio nel 2003 ed il cui percorso ha modificato sia i confini del 1967 che quelli previsti dagli accordi di Oslo. La “barriera di sicurezza” è stata dichiarata illegale nel luglio 2004 dalla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja.
Secondo la Foundation for Middle East Peace, attraverso il sistema di strade e la barriera di sicurezza Israele si avvia ad annettere tra il 20 ed il 50 % della Cisgiordania concedendo ai palestinesi l’autonomia su quattro aree: Cisgirdania centro-nord (da Jenin a Ramallah), Cisgiordania sud (da Betlemme a Hebron), Gerico a cui aggiungere la Striscia di Gaza.
Inoltre, la “barriera di sicurezza” ha diviso Gerusalemme Est dalla Cisgiordania. In questo modo 200.500 palestinesi residenti a Gerusalemme Est sono stati isolati dal resto della Cisgiordania mentre 202.500 palestinesi residenti in periferia sono stati separati dal resto della città. L’espansione dell’insediamento di Male Adumim e la costruzione della barriera di sicurezza hanno di fatto diviso in due aree separate la stessa Cisgiordania.
La “convergenza” di Olmert
Quando il 10 novembre del 2005 il partito laburista guidato da Amir Peretz ha annunciato il ritiro dal governo di coalizione, Sharon ha reagito indicendo nuove elezioni ed annunciando la fondazione di un nuovo partito. Kadima, lett. “Avanti”, omposto da parte del Likud e parte dei Labur, tra cui il noto leader del partito Shimon Peres, è nato con l’obiettivo specifico di portare a termine il piano di disimpegno unilaterale.
Malgrado l’uscita di scena di Sharon, colpito da ictus nel dicembre 2005 e nel gennaio 2006, Kadima si è affermata alle elezioni politiche del marzo 2006 anche se in maniera meno larga del previsto.
Il Primo Ministro Ehud Olmert ha dichiarato di voler proseguire nel piano di disimpegno unilaterale previsto da Sharon ritirando le forze militari e smantellando gli insediamenti di alcune aree della Cisgiordania. In varie dichiarazioni, Olmert ha parlato di piano di “convergenza”: il ritiro di circa 70.000 coloni in aree non precisate della Cisgiordania ed una più generale razionalizzazione della presenza israeliana nei territori occupati. La vittoria di Hamas alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese del gennaio 2006 e il successivo boicottaggio internazionale dell’Anp hanno favorito la conferma del metodo unilaterale nell’attuazione del piano di disimpegno.
La crisi economica nei territori occupati
La grave crisi economica ed occupazionale nei territori è stata aggravata dalla frammentazione territoriale e dal boicottaggio internazionale del governo Hamas. Il rapporto della Banca Mondiale del marzo 2006 sulla situazione economica nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania afferma che allo stato attuale di sospensione di trasferimenti di tasse ed aiuti e di restrizione di movimenti, il tasso di povertà ed il tasso di disoccupazione toccheranno rispettivamente il 78% ed il 48% nel 2008. In una nota del 9 maggio 2006, la stessa Banca Mondiale definisce queste previsioni ottimistiche.
Nonostante ciò, dal momento del ritiro, Israele ha tentato di dichiarare la Striscia di Gaza territorio “non occupato” e di declinare ogni responsabilità sulle disastrose condizioni economiche della popolazione.
Il quadro internazionale: la “road map”
Le reazioni internazionali al piano di disimpegno unilaterale sono state di generale approvazione. Da una parte il conflitto israelo-palestinese non ha rappresentato il centro dell’azione diplomatica americana in Medio Oriente. Dall’altra, l’Ue si è dimostrata poco efficace nell’assumere una posizione unitaria riguardo all’evolversi del conflitto.
Il quadro diplomatico in cui si muovono gli attori internazionali è la “road map”. La “road map”, presentata dal Quartetto di negoziatori formato da Ue, Usa, Onu e Russia nell’aprile del 2003, prevede, prima di tutto, una cessazione completa degli attacchi kamikaze palestinesi in territorio israeliano; in secondo luogo, il blocco nella costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania ed il ritiro delle forze israeliane dalle zone sotto l’amministrazione palestinese; infine, la riapertura del negoziato per la creazione di uno stato palestinese indipendente e la definizione dello status finale sulle questioni contese: Gerusalemme Est, i rifugiati e i prigionieri politici palestinesi, condizioni di accesso alle risorse idriche. Il Quartetto ha definito il piano di disimpegno unilaterale una “rara opportunità” considerandolo conforme alla “road map”. Di fatto, non sono stati censurati in modo sostanziale né l’unilateralismo dell’operazione né la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania.
La posizione di Stati Uniti ed Unione europea
Il presidente degli Stati Uniti George Bush ha appoggiato il piano di disimpegno unilaterale affermando la necessità del riconoscimento delle "nuove realtà sul campo", cioè gli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania. Queste dichiarazioni sono in contrasto con le posizioni ufficiali degli Stati Uniti fino al 2002 che consideravano gli insediamenti all’interno del confine del ‘67 come “illegali” ed un “ostacolo” per la pace.
Durante l’ultima visita di Sharon a Washington del 2005, George Bush ha sostenuto l’obbligo per Israele di cessare la costruzione di nuovi insediamenti nei territori confermando, però, il riconoscimento di quelli già esistenti. L’attuale posizione americana è di sostegno alla “soluzione dei due stati”, come si evince dal discorso di George Bush del giugno 2002, e di conformità del piano israeliano di disimpegno unilaterale alla “road map”.
La posizione ufficiale dell’Unione europea è che “una soluzione finale può essere raggiunta solo con un negoziato tra Israele e palestinesi, che conduca a due stati sovrani e indipendenti sui confini del ‘67 che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza come previsto dalla “road map”. Questa posizione era stata già formulata analogamente nei Consigli dell’Ue di Venezia 1980, Berlino 1999 e Siviglia 2002.
Tuttavia, nessuna opposizione è stata manifestata dall’Ue al piano israeliano di disimpegno unilaterale ed il rapporto critico di alcuni diplomatici britannici presentato nel 2005 al Consiglio dei Ministri dell’Ue non ha comportato alcuna azione ufficiale in sede comunitaria.
Le posizioni palestinesi
La delegittimazione da parte del governo israeliano e la mancanza di unità della leadership palestinese non hanno consentito una risposta efficace al piano di disimpegno unilaterale. L’annuncio del piano di disimpegno unilaterale è venuto nel terzo anno di intifada – scoppiata il 28 settembre del 2000 a seguito della provocatoria passeggiata di Ariel Sharon nella spianata delle moschee – e a più di cinque anni dagli ultimi incontri ufficiali di Camp David, in una fase di totale assenza negoziale.
Nel dicembre 2001 il governo israeliano ha definito l’Autorità palestinese un’entità che “sostiene il terrore”. Arafat e tutta la classe dirigente di Fateh sono stati considerati come interlocutori non credibili ed è stato disconosciuto loro il ruolo di negoziatori previsto dagli accordi di Oslo procedendo al piano di disimpegno unilaterale.
Quando il piano di ritiro è stato annunciato, la classe dirigente palestinese appariva frammentata ed indebolita. Il fallimento degli accordi di Oslo, lo scoppio della seconda intifada, la cronica crisi economica ed occupazionale, l’incapacità di trasformarsi in classe dirigente per una politica di costruzione nazionale, il mancato controllo su gruppi terroristici ed apparati di sicurezza hanno indebolito la leadership di Fateh.
Tale è stata la divisione tra i due principali movimenti politici palestinesi, Fateh ed Hamas, che non c’è stata una risposta univoca al ritiro israeliano. Sia Fateh che Hamas si sono opposti al piano di disimpegno unilaterale. Non hanno messo in discussione il ritiro in sé ma il metodo con cui è stato attuato. I due gruppi contestano l’unilateralità delle decisioni assunte e l’espansione israeliana in Cisgiordania. Tuttavia, Hamas ha inizialmente salutato il ritiro israeliano come un successo della strategia della seconda intifada e degli attacchi kamikaze.
Gli ultimi sviluppi
La cattura del militare israeliano Shalit, dello scorso giugno, ad opera di tre gruppi armati, le brigate al-Qassam, il Comitato popolare per la Resistenza e l’Esercito islamico ha provocato una dura reazione militare israeliana. Sebbene non ci siano collegamenti provati con il governo di Hamas, l’esercito israeliano ha attaccato il sud ed il nord della Striscia di Gaza, ha demolito infrastrutture, parte della rete idrica ed energetica dei territori, ha bombardato la residenza del Primo ministro Haniye, del ministro dell’Interno ed ha preso in ostaggio la metà dei membri del governo.
Questo dimostra il controllo militare effettivo delle forze armate israeliane sulla Striscia di Gaza. La situazione è resa ancor più esplosiva dall’attacco portato al Libano dalle forze israeliane in seguito alla cattura di due militari da parte del movimento sciita libanese Hezbollah.

Giuseppe Acconcia
affarinternazionali.it
luglio 2006

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